ARTICOLO BIOEDILIZIA
DI ARCH. UGO SASSO
La scienza copia la natura, vi si adegua o le impone le leggi ad essa estranee? E cos’è la natura, qualcosa che sta dentro o fuori di noi? Sicuramente definiamo naturale ciò che è rimasto estraneo all’intervento umano, come le foreste dell’Amazzonia o i fenomeni meteorologici; eppure, a riflettere, leggiamo come “naturale” anche lo sbocciare sul balcone di un fiore selezionato nel tempo con abili artifizi. Per altri versi, non esiste probabilmente nulla, dai ghiacci dell’Antartide alla profondità degli Oceani che sia rimasto totalmente e semplicemente estraneo agli effetti dell’azione umana.
Detto in altre parole, appare incongruente distinguere l’uomo da tutto ciò che lo circonda, negando la ricca continuità che lega il nostro vivere al mondo (se la nostra più profonda essenza non fosse naturale, potremmo davvero – ed impunemente – superare il bisogno d’ogni contatto con il mondo esterno). Tuttavia, dall’altro lato, pare difficile anche guardare l’uomo come essere integrato nei processi (se così fosse, se tutto ciò che facciamo fosse “naturale” per definizione, non sarebbe possibile una nostra uscita dai binari dell’equilibrio).
Purtroppo o per fortuna, così non è. In effetti l’uomo, pur facendo parte del mondo, se ne distacca e lo guarda dall’esterno utilizzando una griglia di comportamenti e di interpretazioni sociali, politiche, religiose, etiche, artistiche. Nella lunga storia della Terra, il fattore uomo appare come del tutto nuovo in quanto capace di inventare, innovare e cambiare per rendere più vantaggioso il rapporto con l’ambiente. Capacità che ci distinguono dall’intorno fornendoci il privilegio di intervenire su di esso, sulla materia (vedi la chimica) e perfino sulla stessa evoluzione biologica (vedi gli organismi geneticamente modificati). Si tratta di acquisizioni che le generazioni ed i gruppi si trasmettono dando luogo a quel fenomeno antropologico definito cultura.
Per cui il termine dialettico, la tragica contrapposizione di cui siamo spettatori e attori, non è tanto Uomo / Natura, bensì tra ciò che è naturale (cioè segue leggi intrinseche) e ciò che culturale (è quindi frutto di elaborazioni e scelte umane). Solo che oggi la cultura pare come assorbita, risucchiata nella tecnica.
Anche la scienza – ecco un altro polo dialettico: Scienza e Tecnologia – non può essere concepita senza la sua finalizzazione applicativa. E’ questo un fatto del tutto moderno, mentre in passato (pensiamo all’idraulica dei Romani, all’agopuntura dei Cinesi, agli usi botanici dei popoli primitivi) la tecnica si fondava sull’osservazione empirica, sulla lettura dell’esperienza, senza bisogno di rispondere e inquadrarsi in costruzioni teoriche. Erano i tempi in cui la scienza era finalizzata alla comprensione del mondo e non – come nella modernità – a carpirne segreti da sfruttare. Difficile dire come andrà a finire.
Al nostro tempo la conquista della chiara consapevolezza (è tanto? è poco?) che il nocciolo del problema non sta nel proteggere il verde, nell’organizzare il traffico o nell’usare il sughero al posto della lana di roccia; cioè che la possibilità di stabilire un nuovo equilibrio non sta nei materiali, nelle singole scelto o nella tecnologia quanto piuttosto nel recupero di prospettive, significati, orizzonti.